(di Lucetta Scaraffia) – Ogni tanto leggiamo buone notizie, che ci fanno riflettere. Due professoresse di un liceo milanese, stufe di vedere i loro studenti sempre con il naso sui telefonini, ognuno chiuso nel proprio mondo, senza parlare né tanto meno giocare con gli altri, hanno deciso di proporre loro un esperimento. Arrivate in aula con uno scatolone, hanno chiesto di consegnare i telefonini per una settimana, per provare a vivere senza quell’ingombrante appendice.I ragazzi hanno accettato, se pure con qualche timore. E alla fine hanno confessato che i primi giorni sono stati i più duri, e una ragazza ha detto perfino di avere pianto la prima giornata. Ma poi, coadiuvati dalla scuola che ha organizzato in quella settimana varie attività culturali e sociali – come visite ai musei, gare sportive, aperitivi – il tempo è passato benissimo.
Soprattutto hanno raccontato di avere riscoperto la gioia dei rapporti umani veri, di incontri personali non solo virtuali, hanno riscoperto la bellezza dei luoghi, il cielo. Insomma, hanno ricominciato a guardarsi intorno e a scoprire la realtà che li circonda. Una ragazza ha perfino raccontato di avere parlato un’ora con suo padre, esperienza di cui non aveva memoria. Del resto, tutti noi vediamo al ristorante, seduti allo stesso tavolo, dei genitori con figli adolescenti che non parlano mai con loro, immersi nel telefonino. Un amico mi ha raccontato di essere andato a riprendere il figlio, che era a una festa di compleanno di compagni delle medie inferiori in pizzeria e di essersi stupito, mentre si avvicinava alla stanza dove si riuniva la tavolata, nel sentire silenzio. Pensava di essere in ritardo, che non ci fosse più nessun ragazzo: invece erano tutti lì, ma ognuno concentrato sul suo smartphone…. Sono storie che fanno capire meglio, anche a chi non ha direttamente contatto con gli adolescenti, che cosa sta succedendo e quindi possiamo apprezzare di più il coraggio e l’inventiva delle due insegnati milanesi. Ma questo episodio fa riflettere anche su un altro piano, quello della comunicazione religiosa, e in particolare dell’evangelizzazione. Spesso, in questi ultimi anni, si è confusa nuova evangelizzazione con modernizzazione, cioè con il progetto di trasmettere via internet, possibilmente attraverso le vie più frequentate dai giovani, come i social, messaggi cristiani. L’idea è quella di raggiungere i giovani là dove sono, andarli a cercare dove hanno la testa tutto il giorno. Ma il progetto, per il quale tanti si sono spesi e si spendono, con un aggravio di costi e di lavoro, non sembra avere portato nessun risultato. I messaggi che arrivano per queste vie si confondo con gli altri, vengono assimilati alle notizie su un concerto o un possibile acquisto, non rimangono nelle menti, non lavorano all’interno del cuore. Perché è solo attraverso il vero contatto umano, lo sguardo di un amico, la realtà di un vero incontro, che può essere trasmesso l’insegnamento di Gesù. Invece di spendere energie inutili nei media elettronici, bisognerebbe riportare i giovani alla realtà dei veri rapporti umani, avere il coraggio di far loro capire che è altro ciò di cui hanno disperato bisogno per dare un senso alla propria vita, per capire perché sono al mondo. I cristiani veri sono sempre stati controcorrente rispetto alle culture dominanti, “nel mondo, ma non del mondo” dice la lettera a Diogneto, e solo continuando su questa strada, e magari risuscitando gli spazi ormai disertati dell’oratorio o lanciandosi in una partita di pallone per poi commentarla sudati e felici, che si può veramente toccare il cuore e aprirlo all’evangelizzazione.