di don Bruno Meneghini – Quarant’anni fa Aldo Moro fu rapito, tenuto prigioniero per cinquantacinque giorni e poi ucciso dai cosiddetti «brigatisti rossi»: un gruppo di criminali esaltati che pensavano di «fare la rivoluzione» ammazzando personaggi ritenuti essere nei gangli della società e della politica nostrana. In realtà furono strumenti inconsapevoli (almeno la maggioranza), di poteri molto più furbi di loro, poteri che si opponevano radicalmente all’orientamento che Moro intendeva dare alla politica e alla società italiana. Solitamente Moro appare congelato entro una complessa raffigurazione che non rende giustizia all’ampio respiro del suo pensiero e della sua azione, cioè un politico dall’eloquio fumoso, mirante a conservare il potere al suo partito, la Democrazia Cristiana, soccombente questa per le sue contraddizioni e per i suoi compromessi.
In realtà Moro fu uno statista a tutto tondo, con un pensiero politico organico, e un progetto complessivo sull’Italia repubblicana. Egli considerava la politica strumento della società civile, affinché questa potesse esercitare la sovranità che la Costituzione gli riconosce. Perciò perseguiva la democrazia dell’alternanza, cioè – come ricorda suo figlio Giovanni in una recente intervista (13 marzo) al quotidiano La Repubblica – la possibilità di raggiungere una democrazia compiuta in un’Italia non più congelata entro gli steccati della «guerra fredda». Il tutto entro una visione della politica intesa come garante dell’equilibrio tra la lievitazione dei diritti e della libertà, e l’ordine necessario affinché i diritti conquistati e le libertà affermate non si contraddicano. Grande importanza per lui assume la dimensione storica. Cioè la politica deve sintonizzarsi con il ritmo degli eventi, accompagnandoli senza forzature ma raddrizzando le vie, spianando le colline, colmando i fossati, affinché la società possa raggiungere la sua meta, che per il credente Moro, è il pieno sviluppo delle potenzialità, entro un contesto societario fondato sulla solidarietà, nella libertà e nella giustizia. In pratica intendeva portare i comunisti entro l’area del governo del Paese, in quanto – affermava – non si poteva emarginare un partito che rappresentava quasi un terzo dell’elettorato. Ciò gli attirò, ricorda il figlio Giovanni, «una quantità di nemici interni ed esterni che vedevano un rischio mortale nel fatto che soggetti legati al blocco del socialismo reale entrassero nell’area governativa». Inoltre, Moro è stato uno dei più attivi nella Costituente. Egli dovette misurarsi, da un lato con politici esprimenti le culture laicista e marxista, mentre nel contempo si scontrava con i ritardi di buona parte del mondo cattolico (si dice che il cardinale Giuseppe Siri alla notizia del sequestro disse: «Ha avuto quel che si merita») incapsulata ancora entro una visione integralista e dogmatica, piuttosto che dialogica e storica. Contemporaneamente polemizza con la voglia di rivoluzione delle Sinistre. Rispondendo al socialista Pietro Nenni che contestava la lentezza dei cattolici in ordine al cambiamento sociale, Aldo Moro esalta il valore della non violenza, esplicitando una prassi di cambiamento rispettosa dei tempi di maturazione della gente. Credeva nell’evoluzione delle persone e dei partiti, nel dialogo e nel ragionamento. Era pienamente consapevole di partecipare a una storia redenta, ancorché in difficoltoso e lento cammino. Ecco alcune righe che sintetizzano l’essere e l’agire di questo singolare esponente della generazione politica cattolica del secondo dopoguerra: «Vediamo i problemi nella loro radice. La nostra rivoluzione perciò è infinitamente più lenta e difficile. Rivoluzione interiore destinata a cambiare nell’intimità il mondo. Perciò la nostra fame di giustizia è nel contempo forte e difficile da soddisfare. Noi guardiamo intorno e lontano». Un uomo siffatto hanno ucciso quarant’anni fa i brigatisti rossi. Tra gli aspetti che più sconcertano oggi, è costatare che i suoi assassini e i loro complici, dopo aver scontato la pena in carcere, pontifichino come reduci più o meno gloriosi, con conferenze e libri, senza però chiarire le zone d’ombra e le contraddizioni ancora esistenti circa la sua morte. Perciò, ricorda ancora il figlio Giovanni, «la questione non è affatto chiusa».