( a cura di don Bruno) Casa in ebraico si dice bet, come la seconda lettera dell’alfabeto. La sua forma grafica suggerisce l’idea di un riparo chiuso su tre lati, ma con un quarto lato aperto, come una grande porta spalancata sul mondo, che si allarga sullo scorrere della vita. La forma simboleggia la funzione della casa, che è accogliere e custodire, come, afferma Annik De Souzenelle, “simbolo del femminile”. Casa è accoglienza, ma non sequestro o isolamento.
La lettera bet, infatti, ha un lato aperto che mette in contatto il dentro e il fuori, come una soglia da varcare, un andare e un venire. E così dev’essere la casa: non un luogo in cui ci si esclude dal mondo e dalla storia, ma un posto sicuro e amorevole dove si elabora un modo diverso di abitare la Terra. Quella quarta parete aperta sembra, come canta una celebre canzone, il “cielo in una stanza”. Non puoi abitare creativamente la Terra se non sei ben radicato nel cortile di casa e, al tempo stesso, non mantieni le porte e le finestre aperte ai grandi venti della storia. Casa, nel linguaggio biblico, ha un doppio significato: indica l’edificio dove si abita, e anche l’insieme delle persone che lo abitano, il casato. Natan dice a Davide: non tu costruirai una casa al Signore, ma il Signore una a te, di generazione in generazione. Al tempio Dio preferisce il tempo, al recinto sacro antepone il luogo della vita. E’ così confortante pensare a Dio nella casa, a un Signore che ti sfiora e ti tocca non solo nelle chiese o nelle sinagoghe, ma nella vita di ogni giorno, nei giorni della festa come nelle notti di tempesta, innamorato del quotidiano dell’uomo. Quando Gesù sceglie i dodici, il Vangelo, raccontando la motivazione di quella chiamata, dice: ne scelse dodici perché stessero con lui. Non per istruirli su nuovi sistemi di pensiero, ma per stare insieme. Non per far crescere i numeri del gruppo, ma per fare casa insieme. Non per riti o liturgie, ma per abitare la vita insieme, per “stare con”. Stare con l’amato o l’amico è una esperienza che da sola basta a riscattare i giorni oscuri, a redimere ore vuote o amare.
La topografia di Israele è costellata di nomi che contengono l’idea di casa: Betsaida (casa della pesca), Betlemme (casa del pane), Betania (casa di povertà o di afflizione), Betfage (casa dei fichi). Ma Gesù va oltre, la casa è dovunque, su ogni strada: ne scelse dodici perché stessero con lui e poi, solo dopo, solo dopo l’esperienza di aver fatto casa insieme, dopo la costruzione di legami che sono la verità dell’uomo, mandarli a predicare. Senza cose, ma non senza un amico. Un bastone per appoggiarvi la stanchezza, un amico per appoggiarvi il cuore. E’ splendido pensare a Gesù che con i suoi discepoli e le sue discepole (Lc 8,2) ha come obiettivo primario quello di fare casa, di condividere vita più che trasmettere idee. Il fuoco si trasmette col fuoco. Lungo le strade di Galilea per tre anni sarà allora contagio di vita, scuola di libertà e di amore. E quando, dopo la defezione di Giuda, sarà necessario ristabilire la cifra di dodici, il criterio di selezione dei candidati sarà espresso così: “Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni…, uno divenga testimone, insieme a noi…” (Atti 1,21-22). Tra coloro che sono stati con noi, in quella casa senza pareti, con il cielo per soffitto e l’erba per pavimento; in quel tempio con il lago come abside, fichi e sicomori come colonne, e strade come navate; perché abilitato ad essere apostolo è solo chi ha fatto casa con Gesù, ha condiviso pani e pesci, lacrime e abbracci, e forse non ha capito molto di lui, ma lo ha molto amato e lo ha seguito per tre anni, fino alla notte della paura e della fuga.