A Natale i paeselli del Molise splendono di una bellezza intima e calda. Una bellezza che mi spinge a non celebrare la messa di mezzanotte in cattedrale. Preferisco passare di paese in paese: visito i bar, ascolto, confesso. Poi presiedo con il parroco del posto la liturgia eucaristica. E così, qualche anno fa, mi trovavo a Macchia Valfortore (CB), un paesino fuori mano, che però possiede una chiesa rinascimentale di rara bellezza e due graziose cappelle lungo le colline che degradano, dolcemente, verso il lago di Occhito. Gli anziani erano rimasti stupiti: mi ero messo ad ascoltare le loro storie mentre concludevano la partitella a carte. Poi li ho rivisti in chiesa, e a quel punto erano loro ad ascoltare me, mentre raccontavo di quel Dio che ci viene incontro, nei panni di un bambino, nella quotidianità di un presepe. Per questo, mi hanno chiesto di rivedere il testo di una loro recita. Ed è con amore che ho loro suggerito alcune sottolineature. Natale è la prova che Dio viene per me e per tutti noi. La logica si rovescia, il piano dei malvagi è capovolto da un umile Bambino in una stalla. Potente non è l’uomo sullo scranno più alto, nemmeno se è eletto a gran voce. Potente è chi ama, chi serve, chi perdona. Potente è quel Bimbo che ci rende nuovi. Gesù è la prova che Dio non si è limitato a guardarci dal Suo trono celeste. Ci ha donato “la chiave del cielo”. Una chiave respinta all’inizio: “Non c’era posto in albergo” – dice l’evangelista Luca – per questa famiglia richiedente asilo di 2 mila anni fa. “Non c’era posto”: una frase gelida che sa di confine, di muro. Come quelli che sorgono in Europa o negli Stati Uniti. La grandezza fragile accoglie, la grandezza potente si difende, se ne sta comoda, occhi e orecchi chiusi. Ma il Dio che viene suggerisce che ci salva solo se si accoglie. Il Natale ci offre di cambiare prospettiva, di inginocchiarci come i pastori al cospetto di Colui che ci rende grandi. Un parroco mi ha riferito che in un paesello del Trentino una comunità parrocchiale ha creato un presepe per l’accoglienza dei migranti. Al centro di un grande mare burrascoso su una zattera nasceva Gesù, come succede a tanti bimbi nei gommoni di disperati del Mediterraneo. Sulla riva, porto di approdo, ecco una famiglia, con le braccia aperte e una scritta: “Vi stiamo aspettando”! Tanto è bastato per iniziare una nuova pagina. In quella comunità i migranti sono integrati, lavorano. Il miracolo è avvenuto. Quanto vale, allora, un presepe natalizio!
Il Natale è sempre concretezza. E’ incontro vero con la storia quotidiana. Contatto con la carne del Cristo, che supera ogni ideologia. Ben lo descrive papa Francesco, mentre viene intervistato sull’odierno cammino ecumenico: “Per riscoprire la nostra unità, dobbiamo andare al battesimo, perché avere lo stesso battesimo vuol dire confessare insieme che il Verbo si è fatto carne. Questo ci salva. Tutte le ideologie e le teorie nascono da chi non si ferma a questo, non rimane alla fede che riconosce Cristo venuto nella carne e vuole andare “oltre”. Da lì nascono tutte le posizioni che tolgono alla Chiesa la carne di Cristo, che “scarnificano” la chiesa”. E’ singolare poter unire Natale e battesimo. In entrambi i segni prevale la carne di Cristo. Attesa, amata, adorata, venerata, accolta. Ieri, nella grotta, da Maria e Giuseppe. Oggi nella storia di chi apre alle chiese inediti orizzonti, abbraccia i patriarchi ecumenici un tempo nemici e dialoga con un vescovo donna. Lungimirante è allora chi prepara i cuori e costruisce presepi di fraternità. Tutti radicati nella stessa carne di Cristo. L’augurio finale lo riprendo dall’Evangelii gaudium, il capolavoro di papa Francesco: “Maria è colei che sa trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza” (n. 286).