(a cura di don Bruno Meneghini) – Testimonianze di credenti fuori del comune: così definirei le vite di alcuni cristiani che negli anni anni ‘60 e ‘90 io e la mia generazione abbiamo avuto il dono di vedere da vicino. Mi vien da dire che siamo stati davvero dei privilegiati. Penso a due santi, Giovanni Paolo II e madre Teresa di Calcutta, che abbiamo conosciuto quando erano ancora in vita. Ma penso anche ad alcune figure di vescovi italiani che abbiamo potuto anche incontrare di persona: il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, mons. Ersilio Tonini, arcivescovo di Ravenna-Comacchio, mons. Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea… Questi testimoni – molto diversi gli uni dagli altri – nel mio cammino di sacerdote hanno avuto un’importanza non secondaria. Tra queste figure un ruolo del tutto particolare spetta a don Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Giovinazzo-Terlizzi.
Nella mia predicazione non era difficile che non utilizzasse qualche scritto di don Tonino: un passaggio di una sua lettera, una sua preghiera, una sua poesia… I suoi testi talvolta erano articolati e complessi, ma in ogni caso efficaci, stimolanti: lasciavano trasparire un’intensa umanità e una fede forte.
Uno dei suoi scritti più significativi: “La stola e il grembiule”. Una meditazione sul ministero sacerdotale, tanto breve quanto illuminante, che prende avvio dal commento alla pagina evangelica in cui Gesù lava i piedi ai suoi discepoli, indossando “l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo”. Il vangelo “per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali, parla solo di questo panno rozzo che il maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale”. Con queste parole don Tonino ci ricordava (e continua a farlo anche oggi) l’identità del prete, chiamato a stare in equilibrio tra questi due “paramenti liturgici”: la stola rinvia alla celebrazione liturgica, il grembiule al servizio nei confronti del prossimo, in particolare verso chi è nel bisogno. Tutti e due, però, sono necessari: “La cosa più importante – scriveva don Tonino – non è introdurre il grembiule nell’armadio dei paramenti, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo”.
Un altro testo che ricordo con particolare affetto – credo insieme a tante altre persone – è la preghiera “Dammi, Signore, un’ala di riserva”, nella quale don Tonino suggeriva l’idea che si può volare – e quindi salvarsi – soltanto se abbracciati. Insomma, non ci si salva da soli: “Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita. Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati. A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che anche tu abbia un’ala soltanto. L’altra, la tieni nascosta: forse per farmi capire che anche tu non vuoi volare senza di me. Per questo mi hai dato la vita: perché io fossi tuo compagno di volo”. Splendidi poi anche altri suoi scritti sulla speranza, che viene dalla fede in Cristo e spinge il credente a pensare strade nuove, talvolta coraggiose e controcorrente, come fu sino alla fine la vita di don Tonino.
Le oltre 15mila persone che il 20 aprile scorso hanno pregato insieme a Papa Francesco sulla tomba di don Tonino, a venticinque anni dalla morte, testimoniano che la sua vita ha dato frutto, proprio come il seme del vangelo. Lo si può definire “un santo della porta accanto” – come dice Papa Francesco nell’esortazione “Gaudete et exsultate” -, che indica a quanti lo hanno conosciuto la meta della santità. Oggi siamo un po’ orfani di figure di padri come quella di don Tonino… ma forse questo significa che è venuto il momento del passaggio di consegne: quello di dare la vita e di prenderci cura degli altri come hanno saputo fare questi “padri nella fede”.