Di recente, il papa è tornato a ribadire che trovare una parrocchia, e soprattutto una chiesa, chiusa è un fatto triste. Perciò, ci sono anche tanti preti che magari sono soli, anziani e responsabili di più comunità che dicono: “Non ce la facciamo”. Se alla chiesa manca il fiato, non ce la fa a uscire! Può sembrare una battuta, ma dietro c’è una riflessione che m’impegna da tempo e mi suscita preoccupazione. Sono profondamente convinto che la direzione indicata da papa Francesco sia quella giusta: il movimento del Dio biblico e il movimento di Gesù è quello di “uscire”, andare verso gli altri. Gesù era un maestro che “sconfina”, dice un credente dallo sguardo limpido come don Angelo Casati. Solo così i cristiani riescono a camminare insieme agli altri uomini e donne, anche lungo le loro strade più buie. Solo così possono mettersi in sintonia con ciò che abita la loro immaginazione e il loro cuore per “farli ardere”.
Il punto è che in molti casi non sembrano esserci più le forze per compiere questo passaggio. Tempo fa, sul mio blog ha avuto molte letture il messaggio di un prete tedesco, brillante e apprezzato, che ha deciso di lasciare il ministero in parrocchia e ritirarsi in monastero dopo aver constato che la comunità cristiana è vissuta come un’agenzia di servizi religiosi, senza che le persone intraprendano veri percorsi di fede e conversione. In questo periodo, l’arcidiocesi di Chicago, come tante altre nel mondo, sta procedendo a un’operazione di accorpamento e chiusura di parrocchie come avviene in tante chiese locali. Ci sono poi i non pochi preti che vivono forme di fatica, disagio, frustrazione, tra di loro, quelli che nella pastorale si misurano con la perdita di rilevanza del proprio ruolo e con l’indifferenza della gente, nonché con le proprie problematiche personali. Alcuni si rinserrano in uno spazio controllato e circoscritto facendo della parrocchia un piccolo feudo o fortino, un’isola chiusa che ha scarsi rapporti con il mondo esterno. Tra coloro che svolgono il loro ministero con dedizione, autentico spirito di servizio, umiltà e attenzione alle persone secondo il Vangelo, c’è ci ha doti pastorali e sa creare comunità, anima parrocchie vivaci, calde, ma si misura altresì con un limite sempre più evidente. Quando si arriva al punto di fare un passo “in uscita”, le energie e il tempo non bastano. Conosco parroci davvero validi che vorrebbero andare nelle case e nei luoghi della convivenza, intrecciare nuove relazioni con chi è “lontano” o “sulla soglia”, hanno intuizioni preziose, ma non riescono a concretizzarle perché la gestione delle attività tradizionali delle nostre parrocchie assorbe completamente loro e i laici che sono disposti a impegnarsi. L’attuale tendenza ad aumentare le unità o comunità pastorali (o altre denominazioni) segue il più delle volte una logica di aggregazioni e sommatoria dettata dalla necessità di ovviare alla scarsità di preti, senza che ci sia una vera e propria progettualità sottostante. La domanda da porsi, allora, diventa: è in questa chiave di necessità imposta dall’alto che vogliamo vivere le trasformazioni delle nostre parrocchie, oppure vogliamo farne l’occasione per ripensare e rinnovare la realtà parrocchiale.
Questa consapevolezza dovrebbe spingerci a operare una diagnosi seria e serena della nostra realtà parrocchiale. Che cosa la fa essere comunità secondo il Vangelo per il nostro territorio, credibile qui e ora? In che cosa vediamo invece mancare il fiato? Con quali situazioni e vissuti abbiamo bisogno di confrontarci per allargare il nostro spazio delle relazioni? E che cosa invece riconosciamo come superfluo e andrebbe abbandonato?