(Christian Albini) – “La parrocchia non si tocca, non è una struttura che dobbiamo buttare dalla finestra. Essa è al contrario la casa del popolo di Dio e deve rimanere come un posto di creatività, di riferimento, di maternità” (Papa Francesco, Cracovia, 27 luglio 2016). Nei documenti della chiesa cattolica le dichiarazioni in favore della parrocchia, che ne sottolineano l’importanza, sono innumerevoli e ricorrenti. D’altra parte, quello che possiamo constatare nella nostra esperienza è che la parrocchia affronta trasformazioni, sfide e criticità notevoli le quali ci fanno dire che quello che abbiamo dato per scontato finora non vale più. La parrocchia come siamo abituati a pensarla e a conoscerla non “regge” più, non è più in grado di garantire la trasmissione della fede in un contesto secolarizzato dove i cristiani convinti e consapevoli sono ormai minoranza. Abbiamo bisogno allora di capire a che punto è la parrocchia e di fare una “diagnosi” del suo stato di salute, soffermandoci sul senso del nostro impegno in questa realtà. Un primo passaggio è quello di riflettere sull’identità della parrocchia. Senza effettuare una trattazione sistematica di teologia della chiesa locale, possiamo richiamare alcuni elementi fondamentali, i quali ci aiutano a capire ciò che rimane come stabile e permanente e ciò che invece è contingente e modificabile. Cominciando dal vocabolo stesso, ricordiamo che “parrocchia” deriva da paroikìa, là dove con paroikòi sono coloro che vivono come forestieri, precari, pellegrini, che non hanno stabile dimora (cfr. 1 Cor 29,15). Nei primi secoli, con paroikìa si intendevano le chiese della diaspora.
Papa Clemente, nel 97 d.c., scrivendo ai cristiani di Corinto esordisce così: “La Chiesa di Dio che abita da forestiera (paroikìa) a Roma, alla Chiesa di Dio che abita da forestiera a Corinto”. Già la terminologia dice una flessibilità, una variabilità, per cui ciò che è importante non sono delle strutture perenni e fisse nel tempo. La parrocchia non è fine a se stessa, alla propria autoconservazione, ma rinvia sempre a un’altra realtà. E’ un’abitazione provvisoria, una dimora temporanea, nel nostro cammino verso il Regno di Dio. Giovanni XXIII la definiva fontana del villaggio a cui tutti ricorrono per la loro sete. Paolo VI diceva che la parrocchia è un prodigio sociale, una bellezza sociale, in cui ci si unisce in una rete di rapporti spirituali, dove ci si vuole bene nel vincolo della carità (16 marzo 1969). Giovanni Paolo II, nella Christi fideles laici esorta a non identificarla con un territorio o un edificio, ma con la famiglia di Dio, casa aperta a tutti e al servizio di tutti; è la chiesa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie, che vive sul posto. Un altro vocabolo importante per il nostro discorso è “comunità”, dal latino cummunus, che può essere tradotto come “mettere insieme, condividere i doni”. Potremmo allora definire la parrocchia come uno spazio, costruito sui fondamenti della Parola e dell’Eucaristia, di relazioni aperte, autentiche, vitali. Abitiamo un tempo e una società dove sempre più le persone si chiudono nel proprio privato, dove sempre più si è soli e isolati, separati dalle barriere generazionali, economiche, delle opportunità lavorative, in cui si cerca di stare solo con chi la pensa come noi e ci si chiude nei propri muri. Una parrocchia è una comunità alternativa suscitata dalla comunione e che genera comunione, cioè persone che s’incontrano convocate dal Signore (ekklesìa da qol=convocazione), che imparano a stare insieme perché unite da qualcosa che non dipende da preferenze, programmi o somiglianze. “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Pensiamo anche all’”erano un cuor solo e un’anima sola” di At 4,32. Il senso della parrocchia è allora vivere un incontro, una possibilità di relazioni che non possiamo vivere altrove – a cominciare dalla relazione con Dio – e in cui troviamo qualcosa di prezioso, perché siamo aiutati a rileggere la nostra vita nei momenti ordinari ed eccezionali, nelle speranze e nelle angosce, trovando pane per il nostro cammino, acqua per la nostra sete, luce per vedere la direzione dei nostri passi, solidarietà nei momenti difficili. Senza nessuna idealizzazione, però. Noi che abitiamo questo spazio non abbiamo titolo per dirci migliori di altri. Viviamo incoerenze, contraddizioni, divisioni. Dobbiamo essere consapevoli che il nostro vivere nell’orizzonte della parrocchia, animarla, deve stare dentro all’ordine della conversione a cui ogni cristiano è costantemente chiamato.